Premesso che mi sento internazionalista ed europeista, mi voglio concedere questo spazio per parlare dell’Italia partendo dalle sue origini, per quanto  concessomi dalle mie conoscenze, legate soprattutto alla lettura di alcuni testi di Giacomo Devoto, Loredana Cappelletti, Virgilio Ilari, Domenico Ludovico.

Spesso ho sentito dire che Italia è un concetto recente, che non è una nazione, ma un’entità creata di recente ed altre affermazioni che io ritengo approssimative e superficiali.

In realtà invece il concetto di Italia come nazione è piuttosto remoto e le prove sono tangibili, come monete d’argento.

Infatti già nel 91 a.C. gli italici iniziarono a battere moneta, il denario in argento, molto simile al denario romano per dimensioni, materiale utilizzato e valore negli scambi internazionali. Su una facciata appariva il volto di una donna con la scritta ITALIA e sull’altra varie scene, che descriverò eventualmente in seguito.

Italia era scritto in Latino, ma esisteva anche la versione con la scritta in Italico “VITELIU”.

Per  italici, nel periodo che va dal V al I secolo a.C., si intendevano quei popoli che abitavano un vasto territorio dell’Italia antica comprendente a nord l’Abruzzo e parte dell’attuale provincia di Ascoli Piceno, al centro il Molise e la Campania e a sud parte della Puglia, la Lucania, la Calabria fino alla parte nord orientale della Sicilia.

In questi luoghi vivevano molti popoli che si distinguevano dagli altri popoli per l’idioma che parlavano: l’Osco per Campani, Lucani, Sanniti, Brettii e Mamertini; e dialetti Osci per Peligni, Marsi, Equi, Marrucini, Vestini, Frentani e Piceni.

Secondo altri autori   a quell’epoca gli Italici erano gli abitanti dell’Italia, ossia il territorio dal Mar Ionio ai confini ligure e gallico (delimitati dai fiumi Magra ed Esino).

Gli italici erano comunque molto “considerati” dai romani, tanto che gli Italici erano “togati”, per sottolineare che avevano la stessa cultura dei romani, in contrapposizione ai greci, il cui costume nazionale era l’himation che i romani chiamavano   pallium. In realtà “togati”  includeva pure gli italiotes, ossia gli abitanti della Magna Grecia italiana.

La locuzione legale era però  “SOCII NOMINISVE LATINI QUIBUS EX FORMULA TOGATORUM MILITES IMPERARE SOLENT MAGISTRATUS ROMANI”  (“Alleati e membri del nomen latinum ai quali i magistrati romani sogliono richiedere truppe in base alla formula togatorum”) e secondo lo schema “FORMULA TOGATORUM” del Senato, che comprende solo gli juniores (dai 17 ai 46 anni) reclutabili.  

Di diritto o di fatto tutti i socii e amici dei Romani  erano vincolati alle due clausole che troviamo formalizzate nel foedus con gli Etoli del 189 a. C., cioè di “avere gli stessi nemici” (eodem hostes habeto) e di “rispettare lealmente” (comiter conservare) la “supremazia” (maiestas) del popolo Romano. Gli italici, però, erano alleati privilegiati: indossare la giubba militare (saga) comportava il diritto di indossare il costume degli affari civili (toga): dal vincolo politico derivava l’assimilazione culturale. Era appunto la formula (mappa, lista) dei contingenti terrestri – sembra risalente alla grande mobilitazione del 225 a. C. contro la minaccia gallica – a fare la differenza tra la condizione giuridica degli alleati italici e quella delle città italiote e siceliote tenute a fornire contingenti navali (socii navales) e degli alleati oltremarini (reges socii, socii exterarum nationum), anche se tutti erano ugualmente sottoposti all’imperium militiae del magistrato romano.

Qui la distinzione si fa ancora più evidente, tra alleati nella nazione e alleati stranieri.

Nel II secolo a. C. le comunità italiche  fornivano (pro numero cuiusque iuniorum) fino a 120 mila regolari, ossia 193 coorti (600/420 fanti e 30 cavalieri) comandate da ufficiali italici, di cui 158 nazionali (46 latine, 20 sabelle, 20 etrusche, 10 umbre, 31 sannite, 9 apule, 7 lucane, 7 bruzie e 8 italiote) e 35 miste (extra ordinem).

I contingenti erano mobilitati a seconda delle necessità (in misura di 10 nazionali per ogni legione romana e di 5 extra ordinem per ogni esercito consolare di 2 legioni), attingendo a rotazione quadriennale da tutti i gruppi etnici, in modo da mescolarli in falangi multietniche (dette alae perché poste ai fianchi delle legioni romane e comandate da praefecti, generalmente romani o comunque italici).

La societas romano-italica fu temprata dalla seconda guerra punica (218-202 a. C.), l’ultima guerra “mondiale” del mondo antico che assicurò la supremazia romana sull’Oikuméne.

In realtà i rapporti si degradarono soprattutto per i problemi interni di Roma.

Gli italici erano degli alleati molto affidabili e Roma li stava lentamente amalgamando.

Gli italici a quel punto aspiravano solo a diventare romani a tutti gli effetti, ma gli interessi politici contrapposti resero questo processo molto doloroso.

Prima Tiberio Sempronio Gracco nel 133 a. C., con l’aiuto di Publio Licinio Crasso e di Muzio Scevola, tentò di far passare una legge che estendesse agli italici la cittadinanza romana, ma per questo e per altre leggi a favore del popolo fu assassinato.

Dopo l’uccisione di Tiberio, però la causa italica fu ripresa da  Gaio Sempronio Gracco, che  cercò l’alleanza col proletariato italico proponendo, nel 125, la concessione della cittadinanza romana agli italici.

Osteggiata dal senato e sgradita alla stessa plebe romana, che non voleva concorrenti, la proposta fu fatta cadere.

Ne seguirono rivolte ad Ascoli e a Fregelle, una colonia latina dove si erano trasferiti anni prima 4.000 peligni e sanniti e che fu rasa al suolo dal console Lucio Opimio. Nel 123 il concilium plebis respinse a larga maggioranza una rogatio di Gaio Gracco che dava la cittadinanza ai latini e il ius Latii agli altri italici.

La questione italica riemerse vent’anni dopo, quando il senato revocò la cittadinanza accordata da Mario alle due coorti di Camerino che si erano distinte contro i Cimbri nella battaglia dei Campi Raudii (Vercelli).

Nel 99 la concessione graduale della cittadinanza e l’ammissione degli italici alle deduzioni coloniarie figuravano nel programma rivoluzionario del tribuno Apuleio Saturnino, ma anche quest’ultimo fu ucciso come i Gracchi.

Come se non bastasse a colmare la misura nel 95 fu invece approvata una legge che imponeva il rimpatrio degli italici immigrati nelle colonie latine e romane.

A questo punto entra in scena Marco Livio Druso, ma secondo me Druso è un personaggio troppo importante per la causa degli italici e non me la sento di liquidarlo con poche righe. Per cui oggi chiudo qui e a lui dedicherò più spazio un’altra volta.

 

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