foto Rodolfo Cardarelli

foto Rodolfo Cardarelli

L’Italia è sempre stata la terra del vino e dei vitelli.
Se è vero che il nome attuale deriva certamente da Viteliu e le prove di questo le ho già citate in un mio precedente articolo https://www.coppiere.it/2014/01/gli-italici/, è anche vero che uno dei nomi arcaici dell’Italia fu Enotria, la cui etimologia è inequivocabilmente riconducibile al vino.

Molti hanno parlato di Enotria=terra dei vini, ma secondo altri studiosi Enotria deriverebbe da “enotrion” che in Greco arcaico significava “palo da vigna”.
Infatti, a dispetto di quanto possa pensare la maggioranza, la viticoltura specializzata con la vite appoggiata ad un tutore veniva praticata in gran parte dell’Italia centro meridionale e in Sicilia già dal 1500 a.C., dunque ancor prima dell’età del ferro.
Diverso invece l’approccio alla viticoltura degli Etruschi che preferivano “maritare” la vite agli alberi, così nell’attuale Toscana, in parte dell’Emilia e in qualche enclave etrusca in Campania la viticoltura maritata agli alberi è durata millenni.
Cronologicamente viene prima Enotria, termine usato per indicare l’Italia già nel V secolo a. C.
L’Italia già tra il V e il III secolo a.C. esportava vino in Gallia e in generale nei paesi nord occidentali, visto che la Grecia era autosufficiente.

Foto Rodolfo Cardarelli

Foto Rodolfo Cardarelli

Già ben prima di Plinio e di Columella si possono trovare scritti di autorevoli scrittori come Marco Porcio Catone detto Catone il Censore (234 – 147 a.C.) che nel suo De Agricoltura afferma che la viticoltura è la prima delle coltivazioni in Italia. Non dimentichiamo che sebbene all’epoca gli italici non avessero ancora acquisito la cittadinanza romana, a Roma era ben chiaro il concetto di italianità e coloro che non erano italiani, anche se alleati, venivano considerati socii exterarum nationum.
Nel De Agricoltura Catone parla già della viticoltura e dell’olivicoltura come aspetti importanti dell’agricoltura italiana proprio per il commercio con l’estero e già ai tempi di Catone si parlava di attrezzature per la vinificazione.
Fin da allora si era capito che i vini migliori si potevano produrre dai vigneti di collina tanto che Publio Virgilio Marone scriveva: denique apertos Bacchus amat colles, frase che molti attribuiscono a Orazio, ma è di Virgilio.

Plinio 2000 anni fa sosteneva l’esistenza di un numero immenso di vitigni, fino ad affermare che il loro numero poteva essere simile a quello dei granelli di sabbia in una spiaggia!

Virgilio in un mosaico del III secolo

Virgilio in un mosaico del III secolo

In realtà poi nella Naturalis Historia classificò fondamentalmente i vitigni principali in classi e ne individuò esplicitamente 91 e ben 195 vini diversi.
Già allora l’Italia era la capitale della biodiversità viticola e l’Italia possedeva oltre due terzi dei 91 vitigni conosciuti e classificati.
Di fatto si parlava già di doc, con regole per rispettare i nomi dei vini, delle zone, dei vitigni.
I 195 vini erano divisi in:
12 prodigiosi, 50 generosi, 38 oltremarini, 18 dolci e 64 contraffatti.
Columella ne classificò appena 58.
Tornando ai vitigni Plinio considerava migliori i cinque della classe “Aminea”.
A questa classe appartenevano: la vitis Ellenica (l’attuale Aglianico), la Falerna (l’attuale Falanghina) ed altri che potrebbero essere ricondotti all’attuale Greco, il Riesling e il Pinot Meunier.
Poi venivano i vitigni rossi di Nomentum e a seguire le Apianae, tra cui certamente Moscati vari e Malvasie, oltre al Fiano. Chiaramente questi erano i vitigni che attiravano le api e i Moscati anche le mosche.
I vini più importanti all’epoca erano tutti campani e il più prestigioso in assoluto, secondo diversi autori, almeno fino a una certa epoca, fu il Cecubo, che però a un certo punto si estinse e non è ben chiaro il motivo.
Il secondo che poi dopo la scomparsa del Cecubo divenne il protagonista assoluto fu il Falernum, di cui ho parlato qui  (link).
Poi venivano il Caleno e il Formiano.
Interessante anche il Massico, che confinava come zona di produzione con il Falerno, ma era considerato robusto e tonico, ma meno fine del Falerno.
Sempre in Campania nascevano il Cumano, Il Sorrentino e il Trifolino, oltre al Tarentino.

mosaico romano

mosaico romano

A Messina si produceva il Mamertino, molto caro a Caio Giulio Cesare, ma la Sicilia dava alla luce anche il Potulanum, il Pollio, il Biblino e Tauromenitanum.
L’Abruzzo produceva i pregiati Peligno e Pretuziano.
Il Veneto produceva il Raeticum e il Pucinum, detto anche Preciano.
I vini Laziali e non erano considerati pregiati, ma classificati come l’Albano, il Sabino e il Vaientano e quelli romagnoli menzionati, ma privi di nome e considerati generici.
I recipienti erano i Dolia, anfore di terracotta che contenevano tra 180 e 300 litri, erano alti circa 2 metri e venivano interrati per due terzi dalla loro altezza.
I Dolia venivano utilizzati per la fermentazione, i vini pregiati venivano più volte travasati in altri Dolia e chiarificati con la chiara d’uovo.
I vini meno pregiati non venivano travasati.
I Dolia per l’esportazione avevano anche l’etichetta detta Pittacium, che riportava la denominazione del vino, il nome del produttore e il nome del console in carica. Famoso il Falernum Opimianum prodotto sotto Lucio Opimio https://www.coppiere.it/2013/11/loremipsum01/.
Le navi che trasportavano il vino, generalmente verso la Gallia, contenevano tra 2000 e 3000 Dolia.
Nel secondo e nel primo secolo a.C. in Italia si producevano le anfore chiamate per convenzione Dressel 1 che furono prodotte solo in Italia, soprattutto tirrenica.

fossile di vite (Veneto)

fossile di vite (Veneto)

Poi verso metà del primo secolo vi furono alcune modifiche e si iniziarono a produrre delle anfore chiamate Dressel 1A più pesanti e Dressel 1 B, che ben presto vennero imitate in Spagna e a seguire in Gallia meridionale, ciò fa pensare che verso metà del 1 secolo a.C. si iniziò a produrre vino in Gallia meridionale.
Anfore Dressel 1, prodotte in Italia, sono state trovate fino in Inghilterra, in nord Africa, lungo il Rodano, il Reno, l’Ebro, la Garonna e la Guadiana, dunque senza dubbio all’epoca l’Italia esportava vini in quelle zone.
Nelle zone alpine, secondo Plinio, si utilizzavano recipienti in legno, tenuti insieme da cerchi metallici, quelle che poi sono diventate botti, di diverse dimensioni, alcune piccole di 200 o anche di 100 litri.

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