Sui vini più antichi del mondo si è scritto molto, anche io ho scritto più volte

foto a cura di Davide Tanasi presa https://www.theguardian.com/

https://www.coppiere.it/2014/06/vinificazione-nellantichita-cantina-antica-mondo/

https://www.coppiere.it/2022/08/viaggio-in-georgia-prima-parte/

Armenia, Azerbaigian, Georgia, Cina, Iran, ma anche Sardegna ed Egitto.

All’elenco, dalle ultime ricerche (2017), si aggiunge la Sicilia e con basi molto solide.

Dunque non è una notizia di oggi, risale a oltre 6 anni fa, ma merita di essere approfondita.

La ricerca è stata curata dall’Università della Florida del sud ed in particolare dal gruppo guidato dall’archeologo Davide Tanasi.

Chi è Davide Tanasi

Davide Tanasi, è nato a Noto 50 anni fa, ha conseguito all’Università di Catania la laurea in Lettere classiche con indirizzo archeologico e all’Università di Torino la specializzazione e il dottorato di ricerca.

A Torino è rimasto per altri due anni con una borsa post dottorato; poi è tornato a Catania per un’altra borsa post dottorato di un anno.

Dal 2010 al 2015, per conto della Arcadia University (ateneo della Pennsyllvania che ha una sede staccata a Siracusa) ha condotto scavi e studi con particolare attenzione alla dieta dei nostri avi.

La svolta della sua vita di ricercatore è arrivata con il suo approdo a Tampa, con sua moglie Denise Calì, anche lei archeologa, all’University of South Florida.

Per approfondite ricerche servono fondi

Purtroppo in Italia sulla ricerca si investe sempre poco e per questa ragione i ricercatori vanno dove le Università dispongono di fondi.

Anche da Davide Tanasi arriva l’usuale conferma che i suoi studi in Sicilia sono stati «validissimi: la preparazione universitaria italiana è superiore a qualsiasi altra al mondo, una persona che si è formata in Italia è destinata ad eccellere all’estero. E soprattutto noi siciliani siamo molto creativi e intraprendenti nella ricerca, essendo sempre stati abituati a fare tutto con poco». Peccato, però, regalarli all’estero non appena formati: «In realtà – sottolinea Davide Tanasi – il termine fuga dei cervelli fa più male a chi se ne è andato. Chi lascia, va via perché vuole portare la propria ricerca a un livello più alto o non ha più alternative o non ha potuto trovare lavoro. La verità è che il sistema universitario italiano è profondamente inquinato da clientelismo, nepotismo, corruzione, per cui è difficile per uno bravo trovare opportunità e, quando riesce a trovare sistemazione, reperire i fondi necessari per fare ciò che vuole. La combinazione di questi due fattori spinge sempre di più giovani ricercatori a cercare alternative»

Presso l’University of South Florida hanno capito lo spessore del Professor Tanasi e la solidità della sua formazione.

Soprattutto hanno capito che le potenzialità di uno studioso di archeologia e storia della Sicilia dalla preistoria all’epoca greca, romana e medievale, dotato di conoscenze interdisciplinari dell’archeologia.

https://davidetanasi.com/

In che senso interdisciplinari?

Davide Tanasi, 13 anni fa, è stato autodidatta: «In particolare nel 2006 ho iniziato un rapporto di amicizia e di grande collaborazione professionale con un collega informatico dell’università di Catania, il prof. Filippo Stanco, oggi professore associato nell’ateneo etneo. Io ho sempre avuto un interesse verso la tecnologia e l’informatica e lui ha sempre avuto un interesse verso i beni culturali. Da allora non abbiamo mai smesso di collaborare, anzi l’anno scorso abbiamo realizzato insieme una ricerca di informatica applicata ai beni culturali per la realizzazione di un sistema che riconosca automaticamente il colore sui manufatti archeologici. E ora ho iniziato l’iter di registrazione del brevetto del sistema».

La prima disciplina consiste nell’applicazione di tecnologie digitali per documentare, analizzare, interpretare il patrimonio archeologico, ma la seconda, per molti versi la più importante, è l’archeologia biomolecolare.

Archeologia biomolecolare

La materia si occupa dello studio delle principali biomolecole (DNA, proteine, lipidi, carboidrati) e degli isotopi stabili, che spesso si conservano in reperti paleontologici, archeologici e storici (resti umani, animali e vegetali, residui alimentari, manufatti, ecc.), finalizzato a contribuire alla ricostruzione di diversi aspetti della storia bioculturale umana. In particolare, nell’ambito dell’archeologia biomolecolare, Davide Tanasi utilizza tecniche chimiche sia per lo studio dei residui organici sulle ceramiche archeologiche sia per l’esame di reperti scheletrici umani di epoca greca e romana in Sicilia.

Tanasi: “Abbiamo deciso di utilizzare tre diversi approcci:

La spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR) potrebbe dirci le proprietà fisiche e chimiche degli atomi e delle molecole presenti.

Microscopia elettronica a scansione con spettroscopia a raggi X a dispersione di energia (SEM/EDX).

Riflettanza totale attenuata Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (ATR FT-IR) per analisi elementare, caratterizzazione chimica di campioni.”

https://www.bruker.com/it/products-and-solutions/mr/nmr/ascend-nmr-magnets.html

La dieta mediterranea a quando risale?

Il tutto si inquadra in un grande progetto per ricercare le origini della dieta mediterranea e per provare la presenza di relazioni nell’antichità tra un certo tipo di dieta e l’insorgenza di alcune malattie.

Tanasi “Ho studiato una necropoli della fine del VI secolo a Siracusa: facendo analisi isotopiche sui campioni scheletrici degli individui trovati nelle tombe ricche, abbiamo dimostrato come questi avevano avuto una dieta molto varia (uova, vegetali, carni rosse e bianche, frutti di mare e pesce), mentre quelli sepolti nelle tombe più povere sostanzialmente erano vegetariani. Non solo: analizzando da un punto di vista antropologico le ossa, si scopre che chi ha dovuto seguire una dieta vegetariana ha subito stress fisici ed è morto prematuramente, perché un tipo di dieta non completa determina indebolimento e insorgenza di malattie. Ecco che da lì nasce lo studio del rapporto tra la dieta e le malattie».

Da quanto tempo esiste la legionella?

Negli scavi condotti dal suo team nelle catacombe di Santa Lucia a Siracusa, in due individui che avevano seguito una dieta particolarmente povera, sono state riscontrate «evidenze della febbre del legionario».

L’archeologia digitale

L’utilizzo di scanner 3D per documentare siti archeologici, monumenti di grandi dimensioni o manufatti archeologici all’interno di musei e collezioni, creando modelli 3D ad altissima risoluzione.

Questa tecnologia consente di rispondere a domande di ricerca (ad esempio il modo in cui un vaso è stato realizzato, se ci sono più mani di pittura, per rilevare micro-impronte digitali e palmari che permettano di identificare un determinato artista). Quando documentiamo siti archeologici, invece, i modelli 3D diventano le basi per la ricostruzione virtuale, partendo dalla scansione dell’esistente».

Centri di ricerca

In Florida Tanasi ha fondato due centri di ricerca: uno per l’archeologia digitale (Idex: Institute for Digital Exploration) e uno per l’archeologia biomolecolare (Center for Food and Wine History), creando due squadre con cui riescono ad attirare fondi e sviluppare progetti di ricerca, che poi stanno portando clamorosi risultati».

L’olio più antico del mondo

«Abbiamo individuato la prima prova chimica del più antico olio d’oliva nella preistoria italiana» ha rilevato Tanasi. Questo, ha aggiunto, «spinge indietro di almeno di 700 anni la produzione dell’olio d’oliva». Finora le altre tracce antiche dell’olio d’oliva erano state individuate in alcuni vasi scoperti a Cosenza e a Lecce e risalenti al XII e XI secolo a.C.

I ricercatori hanno individuato tracce di acidi oleico e linoleico, che sono le firme dell’olio d’oliva, in alcuni frammenti di terracotta e in una giara in ceramica rinvenuti oltre 20 anni fa durante gli scavi in un sito archeologico a Castelluccio di Noto, risalente all’età del Bronzo e in particolare al periodo compreso tra la fine del 3.000 a.C e l’inizio del 2.000 a.C. Tutti i resti sono conservati nel Museo Archeologico di Siracusa dove negli ultimi anni sono stati restaurati e riassemblati. I restauratori del museo hanno così ricostruito completamente la giara in ceramica (ottenuta ricomponendo 400 frammenti), alta un metro, dalla forma simile a quella di un uovo, con tre maniglie sui lati e contenente al suo interno residui di sostanze organiche. Nello stesso sito erano stati trovati anche i frammenti di altri due contenitori in terracotta, contenenti anch’essi tracce di sostanze organiche e per identificare la natura di queste sostanze, i ricercatori, adesso, hanno analizzato chimicamente i resti.  «Volevamo scoprire – ha detto Tanasi – a che scopo venissero usati questi contenitori»

Molte anfore analizzate

Residui organici sono stati estratti da trentatré diversi tipi di anfore romane e tardoantiche recuperate da contesti subacquei custoditi nel Museo Archeologico “Baglio Anselmi” di Marsala in Sicilia. I campioni sono stati analizzati utilizzando GC-MS e 1H NMR, trovando biomarcatori di oli vegetali (inclusi acidi grassi saturi e insaturi, alcoli e alcani presenti nelle cere vegetali) identificati in sette campioni. In un campione sono stati identificati i biomarcatori delle Pinaceae spp., utilizzate per produrre la pece. I risultati ottenuti fanno luce sulla funzione di diversi tipi di anfore nordafricane, tradizionalmente interpretate come contenitori per olio d’oliva, vino e salsa di pesce, presentando nuove prove per rivalutare il sistema di commercio tra la Sicilia e il Nord Africa nella tarda antichità.

antiche-anfore-visualizzato-presso-il-museo-archeologico-baglio-anselmi-marsala www.alamy.it

La ricerca

Come è già accaduto tante volte alcuni risultati si ottengono cercando altro, in questo caso i ricercatori stavano cercando grassi animali ed hanno effettivamente trovato tracce evidenti di carne suina cotta, quando si sono imbattuti in molecole di tartrato di sodio in quantità analiticamente rilevanti che hanno usato come marker per la rilevazione della presenza di vino.

I ricercatori hanno escluso la possibilità che si trattasse di residui di uva. Attraverso l’uso di microscopia ottica ed elettronica, non sono stati rinvenuti né semi né bucce. I semi in particolare si conservano per migliaia di anni e sarebbero stati rilevati facilmente. Il fermentato quindi era stato già separato dalla sua componente solida e riposto nel suo contenitore.

Approfondimenti sulle diete delle prime società possono essere ottenuti, indirettamente, dalle prove culturali di manufatti relativi all’approvvigionamento, preparazione e consumo del cibo e dai resti scheletrici umani. Tuttavia, prove più dirette per i costituenti dietetici derivano dall’identificazione di resti intatti di piante e animali raccolti durante gli scavi ma anche dall’esame dei resti amorfi di derrate alimentari associati ai manufatti. I residui organici che aderiscono alla superficie o assorbiti nel tessuto poroso di un recipiente di cottura non smaltato dovrebbero fornire informazioni importanti sia sull’uso del recipiente che sulle pratiche dietetiche.

Questa ricerca analitica combinata con l’ausilio di 1H-1H NMR 2D-TOCSY, ATR FT-IR e SEM-EDX su residui organici su ceramica proveniente da due siti preistorici siciliani di Monte Kronio e Sant’Ippolito. L’obiettivo era quello di gettare nuova luce sull’utilizzo di alcune forme ceramiche e dedurre qualche ipotesi sulle antiche abitudini alimentari.

In questa prospettiva, questa ricerca rappresenta il primo tentativo di testare le potenzialità di questo approccio e di esplorare le possibilità che questo metodo può offrire, attraverso lo studio di due gruppi di materiali provenienti dal sito dell’età del Rame di Monte Kronio (Sciaccia, Agrigento) e il sito della Prima Età del Ferro del Colle di Sant’Ippolito (Caltagirone, Catania).

​Il Monte Kronio è un massiccio calcareo isolato (370 m s.l.m.), posto poco a nord-est di Sciacca. La formazione calcarea, delimitata alla base da suoli impermeabili, è interessata da un’intensa attività carsica causata dalla presenza di acque sotterranee che ha favorito la creazione di un’ampia rete di gallerie e pozzi orizzontali e interconnessi che corrono a diversi livelli.

Il vino più antico d’Europa e forse del mondo

Leggiamo sul sito dell’Università della Florida del sud:

Le analisi chimiche condotte su ceramiche antiche potrebbero essere molto antecedenti all’inizio della vinificazione in Italia. Una grande giara da conservazione dell’età del rame (inizi del IV millennio a.C.) risulta positiva al vino.

Questo ritrovamento pubblicato sul Microchemical Journal è significativo perché è il primo ritrovamento di residui di vino nell’intera preistoria della penisola italiana. Tradizionalmente, il recupero dei semi ha portato a ritenere che la viticoltura e la produzione di vino si siano sviluppate in Italia nell’età del bronzo medio (1300-1100 a.C.). Questa nuova ricerca, condotta dall’Università della Florida del Sud, fornisce una nuova prospettiva sull’economia di quell’antica società.

L’autore principale Davide Tanasi, PhD, dell’Università della Florida del Sud a Tampa, ha condotto l’analisi chimica dei residui sulla ceramica non smaltata trovata nel sito dell’età del rame di Monte Kronio ad Agrigento, situato al largo della costa sud-occidentale della Sicilia. Lui e il suo team hanno determinato che il residuo contiene acido tartarico e il suo sale sodico, che si trovano naturalmente nell’uva e nel processo di vinificazione.

È molto raro determinare la composizione di tali residui, perché è necessario che la ceramica antica venga scavata intatta. Gli autori dello studio stanno ora cercando di determinare se il vino fosse rosso o bianco.

Con Tanasi hanno collaborato anche colleghi degli atenei siciliani, come il prof. Greco dell’Università di Catania.

Enrico Greco

Lo ha intervistato il Guardian nell’agosto 2017.

Pubblicata sul Microchemical Journal, la scoperta è significativa perché si tratta “della più antica scoperta di residui di vino nell’intera preistoria della penisola italiana”, hanno spiegato i ricercatori.

I cinque campioni di residui organici prelevati da orci di conservazione della tarda età del rame rinvenuti nel 2012 in una grotta calcarea sul Monte Kronio, vicino al porto peschereccio di Sciacca, sulla costa sud-occidentale della Sicilia, sono stati datati al IV millennio a.C.

“Abbiamo condotto analisi chimiche sulle antiche ceramiche e identificato la presenza di acido tartarico e del suo sale”, ha detto al Guardian Enrico Greco, ricercatore chimico dell’Università di Catania coinvolto nella ricerca.

Conosciuto come cremor tartaro, il sale dell’acido tartarico, che è il principale componente acido dell’uva, si sviluppa naturalmente durante la vinificazione. “La presenza di queste molecole ci consente di confermare l’uso di questo vaso come contenitore per il vino”, ha detto Greco.

Mentre alcuni esperti hanno suggerito che gli esseri umani potrebbero aver prodotto vino già 10.000 anni fa, le prime prove conosciute di vinificazione – anch’esse risalenti a circa 6.000 anni fa – sono state scoperte nel 2011 vicino al villaggio di Areni in Armenia.

Ma in quel caso gli scienziati hanno affermato di non poter escludere la possibilità che tracce di malvidina trovate nei residui recuperati potessero provenire dai melograni, un frutto comune in Armenia e suo simbolo nazionale.

Nel ritrovamento siciliano la malvidina può provenire solo dall’uva poiché nella zona non esistevano i melograni.

Prima di ciò, pensavamo che la cultura del vino in Sicilia fosse arrivata con la colonizzazione dell’isola da parte degli antichi greci.

Invece la Sicilia produceva vino da prima e probabilmente lo scambiava con metalli provenienti dal nord Africa.

Brindare con un vino di oltre 5000 anni è impossibile, lo farò con un vino siciliano di oggi, salute!

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